Roma, 30 ott – La drammatica situazione di caos, degrado e insicurezza che, a Roma, si registra in quel quadrante che parte dalla stazione Termini e arriva fino a piazza Vittorio è ormai noto anche a chi frequenti la capitale solo sporadicamente. Eppure persiste, al di là delle evidenze, una pubblicistica buonista volta a fare dell’Esquilino “l’isola felice e multietnica di Roma”.

Retorica smentita dai fatti, che testimoniano come nel quartiere non si veda alcun confronto culturale, alcuno scambio di saperi. A meno di 100 metri da piazza Vittorio, tuttavia, c’è un luogo in cui tutto questo sarebbe stato realmente possibile. E infatti ora lo stanno spostando e ridimensionando. Parliamo del Museo nazionale d’arte orientale di Palazzo Brancaccio, prossimo a un contestato trasferimento all’Eur.

Il museo è stato istituito nell’ottobre del 1957 con decreto del Presidente della Repubblica ed aperto al pubblico nel giugno del 1958, sempre a Palazzo Brancaccio, a Roma.

 

A quel tempo l’Ismeo (Istituto Italiano per il medio ed estremo oriente), la cui collezione costituisce il primo nucleo del museo, vi destinò parte della propria sede, le prime quattro sale. Il museo è poi andato progressivamente estendendosi nel palazzo. Gran parte di quanto esposto deriva da una donazione di oltre 2.000 pezzi, dal valore di 5 milioni di euro, effettuata a suo tempo dalla signora Francesca Bonardi Tucci, moglie del professor Giuseppe Tucci. Dal 1 novembre, il museo sarà però chiuso per essere riallestito nei nuovi locali dell’Eur, in spazi del tutto insufficienti (3700 mq contro gli attuali 4580) e con spese di affitto pari al triplo di quelle attuali (2 milioni e 200mila euro all’anno, contro gli attuali 761.333 euro).

Insomma, si spenderà il triplo per uno spazio grande la metà, visto che i nuovi locali saranno in condivisione con gli archivi di Stato. E poi c’è il costo di tutta l’operazione: solo ristrutturare i nuovi locali costerà tra 5 e 10 milioni di euro. I costi di riallestimento sarebbero di circa 1 milione di euro. Il trasporto e l’imballaggio delle opere dovrebbe venire tra 1 milione e 400 mila e 1 milione e 800 mila euro. Del resto la sede di Palazzo Brancaccio è stata radicalmente ristrutturata tra il 1991 e il 1994. Un po’ di anni fa, ma non moltissimi: ora la cifra spesa per quei lavori andrà di fatto perduta. Ovunque la si guardi, la storia sembra folle, e a giustificarla c’è solo un complesso intrigo di affari immobiliari e partite di giro fra ministeri, in cui peraltro non mancano punti oscuri e sospetti.

Insomma, il solito pasticcio a cui assistiamo regolarmente ogni volta che una classe politica indegna si trova a ereditare scrigni preziosi, com’è per esempio il museo di via Merulana e, in generale, tutto il lascito materiale e spirituale di Giuseppe Tucci, l’autorità incontrastata dell’orientalismo italiano, definito “l’esploratore del Duce” per via delle numerose missioni in Oriente per conto del governo fascista, peraltro proseguite anche dopo la guerra, quando Tucci si legò in particolar modo alla figura di Giulio Andreotti. Dal 1929 al 1948, Tucci compì otto spedizioni in Tibet – ivi compreso il Tibet Occidentale, territorio oggi in gran parte in India – e sei in Nepal dal 1950 al 1954. Durante la sua vita, era unanimemente considerato il più grande tibetologo del mondo. Dopo una prima ricognizione effettuata nel 1955, diede inizio alla Missione Archeologica Italiana nella valle dello Swat in Pakistan; nel 1956 iniziò le ricerche archeologiche in Afghanistan e nel 1959 in Iran, dirigendo tali lavori fino al 1978. Il motore di tutte queste iniziative fu, come detto, l’Ismeo, fondato nel 1933 da Giovanni Gentile e dallo stesso Tucci, in anni recenti accorpato all’Istituto italo-africano nell’Isiao, Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente. Un ente che giace dal 2012 in liquidazione coatta amministrativa, roso dal taglio ai finanziamenti pubblici e dalle pretese di banche e fornitori. I veri ponti verso le culture altre e verso la conoscenza del diverso, in Italia, vengono demoliti a colpi di incuria, corruzione, sciatteria e ignoranza. E per conoscere l’altro, agli abitanti di piazza Vittorio, non resterà che confrontarsi con i bengalesi che pisciano sotto i porticati umbertini, i rumeni ubriachi che molestano i passanti, le gang di giovani magrebini in cerca di divertimento, i trans peruviani e qualche alienato dell’Africa subsahariana.

Adriano Scianca